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Il perverso fascino dell’antica fattoria e di come offuscò la brillantezza.

Ci sono delle tappe cronologiche della vita che si fanno spazio indipendentemente dalle devozioni e dalle volontà.
Prendiamo ad esempio i compleanni: quelli tondi tondi si fanno spazio nelle agende, tronfi come pavoni.
So che i 30, i 40 anni, quelli che sono una tappa nell’immaginario collettivo, portano con loro un qualcosa di importantissimo da sottolineare e da festeggiare con perepè fatti bene.
Io non so bene quale sia la proteina che faccia tutta ‘sta confusione nella mente degli umani. Ma è evidente che ne sono priva.

Io, infatti, mi sono accorta di avere la tendenza a fare perepè abbastanza più spesso: io faccio perepè sempre, anche per i numeri dispari.

Fatto salvo la questione in sé, che ragionevolmente potrebbe risultare interessante da indagare in termini clinici, il punto è che di perepè in perepè anche le Naonde diventano grandi.

Me ne sono resa conto, e vorrei che mi seguiste nella drammatica epifania che che mi si è parata davanti nell’accidente inevitabile che chiamano crescere.

 

Imputo queste considerazioni (quelle che esporrò) al fatto che ho sempre trovato particolarmente piacevole trovarmi nei posti sbagliati. Cronologicamente sbagliati.
Da piccola ho sempre voluto fare le cose dei grandi e con il prezzo che tocca pagare per fare le cose più difficili, mi sono spesso guadagnata grandi soddisfazioni: ad esempio, sono andata via di casa presto e mi sono procurata da vivere, nel mentre che i calendari ortodossi della mia propria socialità mi volevano figlia modello studentessa a carico.

Adesso che ho quasi 40 anni, mi sto regalando il privilegio di fare la studentessa universitaria per hobby (con il gusto adulto di assaporare le storie fantastiche nascoste dietro le formulazioni di teoremi e la spocchia di chi non ha alcuna necessità accademica impellente e pratica).

In ogni caso, il punto è che le tappe-della-vita mi sono sempre scivolate addosso. Naturalmente.
Quindi il risultato è che, in generale, ho una discreta (fantastica) confusione sui prima e i poi.

Ma il mio fisico no. Quello è il saggio di casa: era attento alla lezione sull’entropia e sa bene quale evento mettere prima e quale dopo sulla linea del tempo.
Per esempio: la vescica era elastica e impercettibile PRIMA di diventare meno elastica e fastidiosa.
Giammai il contrario. E cose così.
I ragionamenti si ripetono sistematicamente identici su tutti gli organi in ordine alfabetico fino ad arrivare alla Z di zucca: la capoccia invecchia.
E quindi, su quella famosa linea del tempo ci va che sei più rincoglionito DOPO che prima.

Avviso a tutti i detrattori dell’assioma appena enunciato: non siete meno rincoglioniti di ieri, fatevene una ragione. Può darsi che l’esperienza che avete maturato vi aiuti a tamponare le deficienze neurali, ma siete solo più esperti, non meno rimbambiti.

Ciò che accade alle persone più rincoglionite di prima è che, rispetto a prima, si spaventano di più dei cambiamenti.

Pensateci: da ragazzini un gioco nuovo ci faceva drizzare le vibrisse; un cambio di compagni di scuola era benvenuto come una bibita fresca in spiaggia.
Adesso l’aggiornamento della nostra app di posta preferita ci fa comatosamente girare i coglioni. E da quel coma, boriosi, esclamiamo: era meglio prima!

Ed eccoci al punto. Alla drammatica epifania: ERA MEGLIO PRIMA.

A partire da questa sommaria osservazione ho iniziato ad esplorare e ad annotare mentalmente gli erameglioprima che istintivamente ho esclamato o sentito esclamare.

Ora vi giro il fantastico dono che costantemente ricevo dal mio professore di complementi di algebra: vi preannuncio la tesi.

È buona norma diffidare di chi esclama erameglioprima.

Il corollario, evidentemente, è: è buona norma diffidare dei nostalgici.

Io provengo da una sana famiglia meridionale, che tra le varie doti me ne ha consegnato una fantastica: mia nonna (alla quale, tra le altre cose, si riferisce il tributo nel nome della mia più recente attività).
Tra i nipoti è, ancora oggi, oggetto di grande vanto il fatto di riuscire a riprodurre una ricetta di nonna:
“ho fatto gli strascinati uguali uguali a come gli faceva nonna!”
“m’è venuta una pizza coi cicoli proprio come quella di nonna!”
and so on and so forth.

Generalizzando questo orgoglio, va a finire che siamo tentati di gongolare nel riuscire a riprodurre pedissequamente cose del passato, con una certa dovizia di attenzioni alla tutela archeologica.
O peggio, che siamo tentati di ammirare e lodare chi ci propone restaurazioni imitative quali che siano.
Fatte bene. Fatte come si facevano un tempo!

Questa è pura follia. È una demenza pazzesca!

Riuscire a rifare adesso, con la nostra istruzione, con la nostra capacità di accesso all’informazione, al sapere, alla tecnica, all’universo mondo, una cosa che mia nonna faceva 40 anni fa (e sto prendendo l’esempio più recente) è uno spreco, nell’ordine, di:

  • energia
  • denaro
  • intelletto
  • detersivo.

Noi siamo in grado di camminare per boschi incontaminati, montagne disabitate, sentieri inviolati, avendo in tasca la conoscenza localizzata e contestuale di flora, fauna, esposizione, orogenesi. Ripercorrere i passi di un asceta di foss’anche 100 anni fa, con la stessa coscienza o meglio, col desiderio di avere la stessa esperienza di quando erameglioprima, è l’elogio dello spreco del tempo.
Abbiamo fatto trascorrere un mucchio di tempo, persone, impegni inutilmente.

Io questo sentimento lo covo da un po’. Me lo ha inculcato, a sua insaputa, un ragazzo che non c’è più.
Si chiamava Frank Rizzuti ed era uno chef.
Avrei millemila cose da raccontare di bellissime sulle esperienze che ho fatto al suo ristorante, ma in questo contesto vi racconterò, in particolare di come si fanno le cose antiche avendo la conoscenza, la coscienza e il rispetto del passare del tempo.

Frank cucinava strano.
Tu leggevi “rape” e ti veniva alla mente quella puzza di vegetale bollito che regnava a casa di tua nonna.
Poi arrivavano le rape di Frank.
Che le guardavi e pensavi tra te e te:

– mavaffanculova. M’ha portato delle spugnette verdi, m’ha.

E poi le mangiavi.
E che fossi prevenuto, meridionale, fico-so-tuttoio, masterchefdifamiglia, cresciuto a sasicchieffriarielli: tu, tacevi.

Poi leggevi “agnello” e ti veniva allamente quell’otre, francamente puzzolente, che bolliva per intere generazioni a casa di tua nonna.
Poi arrivava l’agnello di Frank, COL GELATO MAHUAAHUAAHAUA IL GELATO!

Che lo guardavi e pensavi tra te e te:

– mavaffanculova. M’ha portato il gelato. Haffatto-lo-chef-ha-fatto.

E poi lo mangiavi.
E che fossi prevenuto, meridionale, fico-so-tuttoio, masterchefdifamiglia, cresciuto a lavare gli intestini per avvolgere le interiora: ti commuovevi.

 

Perché quello che ciò dimostrava, tutto insieme, tutto in una volta, è che i sapori di un tempo sono un niente in confronto.
Perché uno chef, in questo caso, se ripercorre le strade della conoscenza e della tecnica di mia nonna, alla fine della fiera non ha fatto proprio niente di che.
Ha copiato.

Lo chef che usa nuova tecnica, strumenti, conoscenza, esperienza, in definitiva pensa il non pensato.
E questo è commovente, motivante e soprattutto, per davvero degno di massima ammirazione.

E se una cosa mi ha insegnato la matematica, quello è che una volta dominata la tecnica, per andare avanti nel mondo, nel pensiero, nella conoscenza, nella civilizzazione, bisogna pensare il non pensato.

Perciò ogni volta che mi si aggiorna il sistema operativo, un’app (o anche solo il vicino di casa) e ho quell’ansietta che l’ignoto mi inculca, io penso a Frank.
E al gelato di gnummariedd che per nulla al mondo avrei saputo immaginare.